Come è cambiata la mia relazione con il vivere all’estero ora che sono diventata mamma? Con il parlare tre lingue, e col vivere in un melting pot culturale?
Ho attraversato il guado tra donna all’estero e mamma all’estero la sera di un venerdì di gennaio. Fuori dalla finestra il caos della movida londinese, i workaholic ancora in ufficio, i teatri che alzavano il sipario, i ristoranti al primo servizio, i pub già pieni di professionisti con il drink in mano.
E intanto, dentro quella vasca da bagno calda, sono nati un bebè e una mamma all’estero. Ed io, che ero già ragazza all’estero e poi donna all’estero, ho iniziato a prendere le misure con questa nuova identità.
Da donna all’estero, mi sono sempre sentita vicino alla mia famiglia: con quella creaturina tra le braccia mi sono sentita improvvisamente lontanissima.
Da donna all’estero, mi sono sempre sentita vicino alla mia famiglia: casa mia era a qualche ora di volo e a una sola di fuso. Praticamente ho sempre vissuto nell’hinterland italiano, sapendo che, se solo avessi avuto bisogno, la sera stessa sarei potuta essere da loro.
Invece, con quella creaturina fra le braccia, mi sono sentita improvvisamente lontanissima. Dai loro occhi, che non potevano apprezzarne la piccolezza. Dai loro abbracci, che arrivavano cadenzati, e solo da chi riusciva a prendersi qualche giorno per venire a trovarci. Dalla compagnia dopo una notte stancante, o in un pomeriggio in cui lei faticava a prendere sonno. Dalle esperienze e dal vissuto di chi è passata dalla maternità prima di me. Dai miei nonni, ora bisnonni, che non potevano venire a trovarci.
Sono spesso tornata in Italia anche solo per un weekend, per celebrare successi e condividere dolori. I prezzi erano ragionevoli per una persona sola che partiva col bagaglio a mano e che aveva la flessibilità di chi può prendere il primo volo della mattina e l’ultimo della sera.
Da mamma all’estero, mi muovo appesantita e mi muovo di giorno. Appesantita dalle valigie che spostano il piccolo mondo di mia figlia, che da una settimana all’altra può cambiare taglia, avere freddo, avere caldo, o semplicemente sporcare quattro body in poche ore. E di giorno, perché ora andiamo a letto alle nove, e mi ci manca solo togliermi ore di sonno.
Prenderei un aereo per un weekend? È qualcosa che farei per altri, inclusa la Elisa di una volta.
L’idea di prendere un aereo per un weekend è francamente insopportabile, ancora di più se dobbiamo presenziare ad un evento che disturba ulteriormente la sua routine. Lei ama la quiete e osservare gli alberi: chiuderla in un ristorante, o nel salotto buono di qualcuno, per poi metterla a letto ad orari diversi, senza il cuscino da allattamento che è diventato il nostro fortino, mi sa di qualcosa che faccio più per gli altri, inclusa la Elisa di una volta, che per la Elisa mamma e per il bebè.
La donna all’estero che ero non aveva nostalgia di un presente diverso o di un passato che le era giusto. Era partita dopo il liceo felice della scelta di studiare e vivere lontana da una mentalità che le stava stretta, e da un futuro che non riusciva ad immaginarsi.
La mamma all’estero che sono diventata, vorrebbe poter esporre sua figlia a una vita che sia meno di aerei e più di relazioni familiari continue. Di pomeriggi nell’orto coi bisnonni, o a leggere con la nonna, di vacanze coi cugini che verranno. La mamma all’estero ha nostalgia del villaggio familiare che ha lasciato perché alla donna all’estero bastava rendergli visita ogni qualvolta il suo nomadismo glie ne facesse venire voglia.
Quando mi bastava presenziare a qualche evento di famiglia sfruttando il lavoro da remoto, avevo tutte le vacanze a disposizione: andavo a Ohrid a settembre, in Bahrain per un matrimonio, a Panama nel cuore della giungla indigena, poltrivo al sole dell’Egitto dopo due settimane di negoziazioni climatiche senza sensi di colpa. La mamma all’estero ha paura di usare tutte le sue ferie per far attecchire le radici del villaggio famigliare nella figlia, e di sacrificare il tempo per se stessa, o per l’esplorazione del nuovo.
Da persona che ha scelto di vivere all’estero, mi crogiolavo nel caos della mia babele linguistica e culturale. Parlavo italiano solo al telefono con genitori e nonni una volta a settimana, e franglais col marito perché era più facile lanciare una parola in inglese che chiedere come si diceva in francese. La musica macedone e kosovara mi faceva sentire vicina ai Balcani, il trap russo, così melanconico, era spesso la colonna sonora delle mie pratiche yoga. I mantra in gurumukht e sanscrito hanno accompagnato il mio risveglio negli ultimi anni, così come la sua nascita e le sue prime settimane di vita. Sul comodino ho ancora un libro di Isabel Allende, in un disperato tentativo di tenere vivo il mio B2 di spagnolo, e un libro sulle cento parole dell’amore in arabo. In questo melting pot ho trovato la mia identità che è sorta dalle radici solide delle tradizioni familiari.
Da madre, mi preoccupo di come creare le radici solide di mia figlia, che ha il passaporto britannico, il DNA italo-cinese, la residenza negli Emirati Arabi e che sente i suoi genitori parlare francese tra di loro. Cerco di esporla alla nostra lingua madre: le metto su Gruppo Italiano e le canzoni che ascoltavo da piccola, ma anche le playlist di Chinese Buddy in mandarino, la lingua in cui le parlano i nonni paterni. Mi chiedo che cosa della nostra eredità multiculturale farà suo, che cosa invece metterà da parte, e se le sue scelte di domani in qualche modo mi faranno mettere in questione come la sto accompagnando oggi in questa mia transizione da donna a madre.
E mentre ci godiamo gli ultimi mesi europei prima del ritorno nel Golfo, mi ricordo che nulla è per sempre e tutto si trasforma, anche il ruolo di genitore.
Elisa, Abu Dhabi